Al valore della glicemia si presta molta attenzione da un punto di vista medico. Comprenderne il perché è il primo passo per definire i comportamenti utili per tenere sotto controllo questo importante parametro.
È necessaria una premessa: tra i vari zuccheri semplici, il saccarosio domina in cucina o comunque nella produzione degli alimenti dolci (e non a caso è noto anche come zucchero da cucina), mentre nell’organismo umano domina il glucosio, molecola chiave coinvolta in moltissime vie del nostro metabolismo, e tra le fonti più importanti dell’energia necessaria per la vita. Il glucosio in lunghissime catene è tra l’altro il costituente assolutamente predominante (e spesso l’unico) degli amidi, che devono fornire, secondo le linee guida, dal 30 al 45% delle calorie giornaliere (ed ecco rientrare in gioco pane, pasta, pizza, patate). Il glucosio rappresenta anche il 50% in peso del saccarosio, che infatti è costituito dall’unione di una molecola di glucosio e una di fruttosio, e del lattosio, che è invece formato da una molecola di glucosio e una di galattosio.
Tenere sotto controllo la concentrazione del glucosio nel sangue (la glicemia), sia a digiuno e sia dopo l’assunzione di un pasto, specie se a base di zuccheri o amidi, è quindi di grande importanza. La glicemia, infatti, è un parametro controllato in maniera molto stretta a livello metabolico; il valore ottimale a digiuno è compreso tra 80 e 90 mg/dL, e non dovrebbe superare i 100 mg/dL.
Dopo l’assunzione di cibo, e quindi nella cosiddetta fase postprandiale, la glicemia tende del tutto fisiologicamente a salire, a seconda dei carboidrati consumati (attenzione: non solo degli zuccheri); nell’arco di breve tempo, in condizioni normali, la glicemia rientra tuttavia nei limiti che si osservano a digiuno. Sono due ormoni a governare questi meccanismi di controllo: l’insulina, che riduce la glicemia, e il glucagone, che ha un’azione opposta.
La glicemia postprandiale, naturalmente, è influenzata dall’ alimentazione, e soprattutto dagli zuccheri e dai carboidrati complessi (gli amidi) che consumiamo. Il parametro che dà un’idea di quanto aumenterà la glicemia dopo il consumo di diversi alimenti a base di carboidrati è l’“indice glicemico”, che è stato proposto per la prima volta quasi cinquant’anni fa da un ricercatore canadese. A parità di contenuto di carboidrati, un piatto di pasta cotta al dente (esempio di alimento a basso-medio indice glicemico) farà per esempio aumentare la glicemia postprandiale meno di una porzione di purè di patate (alimento a più alto indice glicemico).
Si tratta di una caratteristica degli alimenti che è utile conoscere: molti studi hanno infatti dimostrato che a un’alimentazione basata prevalentemente su alimenti a basso indice glicemico si associa in genere, nel tempo, uno stato di salute migliore rispetto a quello associato a una dieta basata su alimenti ad alto indice glicemico. L’indice glicemico rispetto al glucosio di alcuni alimenti di consumo quotidiano è riportato nella tabella 1.
Negli anni poi sono state acquisite nuove informazioni sui fattori che determinano la risposta glicemica successiva al consumo di un alimento, che può essere migliorata dalla presenza di fibra, o dall’aumento del contenuto di grassi o dalla maggiore acidità del cibo.
La riduzione della risposta glicemica postprandiale è stata riconosciuta come effetto fisiologico favorevole dall’autorità europea per la sicurezza degli alimenti, cioè l’EFSA.
Tabella 1 – Indice glicemico di alcuni alimenti di uso comune, in rapporto al glucosio
Alimento | Indice glicemico |
Pomodori | 9 |
Ciliegie | 23 |
Fagioli | 36 |
Spaghetti | 38 |
Maccheroni | 49 |
Pizza | 62 |
Saccarosio | 67 |
Pane bianco | 72 |
Polenta | 77 |
Patate bollite | 87 |
Glucosio | 100 |